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Firenze migranda

di Giuliano Prandini 

Visitare Firenze nel mese di agosto è da irresponsabili. Il caldo tocca i quaranta gradi e le masse di turisti fanno scrivere ai graffitari in un inglese approssimativo ma efficace che “il turismo è peggio di un esercito di occupazione”.

Non ci facciamo intimorire e decidiamo comunque di partire, vogliamo rivedere la “Cacciata dei progenitori dall’Eden” di Masaccio alla Cappella Brancacci e l’”Annunciazione” di Beato Angelico al Convento di San Marco, gli Uffizi e il Pitti.

E poi anche a Firenze l’organizzazione di turismo responsabile Viaggi Solidali, assieme alla Ong Oxfam Italia e alla Cooperativa Walden viaggi a piedi, organizza visite con guide “migranti” ai quartieri multietnici della città.

In piazza Santa Maria Novella incontriamo Guilherme, un brasiliano di mezza età da sei anni a Firenze, che ci racconta la storia dell’immigrazione nella città. L’integrazione fra diverse comunità risale ai Medici, che nel XV secolo avevano portato il Concilio con lo scopo di riunire la Chiesa Cattolica e quella Ortodossa. Più tardi, nel ‘700, il gran tour con i giovani, soprattutto anglosassoni venuti per arricchire la loro cultura e poi, lo scorso secolo, all’inizio degli anni ‘60 l’arrivo di americani, greci, iraniani. Vent’anni dopo con gli arrivi da Nord Africa e Sud America nei quartieri del centro e dell’Isolotto la percezione della città nei confronti dell’emigrazione cambia, adesso è di natura economica e Firenze diventa uno dei dodici Comuni in Italia con più residenti stranieri (sono 53.400 secondo il censimento del 2011 su una popolazione di 370.000 abitanti). Prevalgono i romeni e poi gli albanesi e i cinesi.

Siamo sotto la targa che ricorda il soggiorno nell’800 dello scrittore e poeta statunitense Henry Wadsworth Longfellow, traduttore di Dante, e con la moglie Nina ci avviciniamo a quello che nel ‘200 era l’ospedale di San Paolo destinato all’accoglienza dei pellegrini che andavano a Roma, poi ospedale per i poveri, convalescenziario, scuola per zitelle povere, sede del museo Alinari della Fotografia.

Nicoletta è romena, in Italia da tredici anni, fa la badante, è entusiasta della gente, della città che conosce meglio di qualche fiorentino e quando va in Romania non vede l’ora di scappare a Firenze. Ci mostra gli obelischi voluti da Cosimo II, attorno ai quali per trecento anni, alla vigilia della festa di San Giovanni, il 23 giugno, si svolgeva il Palio dei Cocchi.

Jackline, keniota, è in Italia da ventun anni, qui si è sposata e ha un bambino di otto anni, lavora in un negozio.  All’inizio anche lei ha fatto assistenza agli anziani; in Kenya aveva frequentato l’università:“è stato uno shock, ma l’ho accettato, a casa avevo mia madre e due fratelli, c’erano giorni no, alcune richieste di quel lavoro erano veramente, veramente difficili, a ventidue anni non puoi vedere il sole da dentro una casa”.

Ci fermiamo sul sagrato della chiesa di San Paolo, citata dal Boccaccio nel Decameron, nella novella di Simona e Pasquino, qui sepolti; Jackline si stupiva che qui le persone venivano sepolte nelle chiese: nel suo paese, lei è kikuyu, si viene tumulati nel proprio campo. Vicino alla chiesa l’associazione “Gli Anelli Mancanti” aggrega italiani e migranti, organizza corsi di italiano, offre consulenza medica e legale. In via Palazzuolo entriamo in un negozio somalo dove una giovane e loquace signora velata mostra di sapere di politica (“Renzi è bravo”) più di noi, passiamo accanto a un parrucchiere nigeriano, poi è la volta di un ristorante egiziano.

A seguito della crisi economica degli anni ‘90 Nadiya, pediatra ucraina, con due figli a casa da mantenere, arriva senza documenti e anche lei accetta di lavorare come badante. Racconta di tante filippine sequestrate in casa, tenute come schiave, ostaggio dei datori di lavoro. Trova sollievo nell’incontro con un prete ucraino della Chiesa cattolica dei Santi Simone e Giuda: lì le donne parlano, cantano, la vita migliora. Siamo passati da un rione popolare ai palazzi borghesi del Borgo Ognissanti. Nella piazza la chiesa barocca, una delle poche a Firenze, già dei frati Umiliati, attivi nella lavorazione della lana e del vetro, con le opere di Botticelli e Ghirlandaio, l’Istituto di Cultura Francese, e nella zona gli edifici della famiglia Vespucci con Amerigo che qui è nato. Della comunità russa ricorda i Demidoff, nobile famiglia di industriali e banchieri che nell’800 vissero a Firenze, finanziarono la facciata del Duomo, alcune chiese come quella russa ortodossa in via Leone X, si dedicarono a opere umanitarie.

Aušra è venuta dalla Lituania vent’anni fa. “La mia integrazione è stata molto difficile. I primi due anni piangevo tutti i giorni…poi la mia vita è cambiata con la nascita di due bambini e mi si è aperto il mondo”. Vicino a noi la chiesa battista, lì dove alla fine del ‘700 c’era il Teatro dei Solleciti e dove nacque la maschera di Stenterello. Anche questa chiesa è luogo d’incontro: “sono molto accoglienti, invitano anche me e i bambini, partecipiamo alle feste, alla Pasqua”. Aušra si è avvicinata alla spiritualità grazie alla fisica quantistica che le ha mostrato il punto in comune fra le diverse religioni. Per  Max Planck, ci dice, “la matrice divina è l’unica energia che governa la particella, per cui se vuoi cambiare la materia stessa incomincia dal vuoto che cambia anche la materia”.

Di fronte ai frequenti attacchi razzisti rispondono che è con la crescita culturale che verranno evitati ed è ancora il livello culturale che garantirà l’integrazione degli immigrati.

Sono cittadini “speciali”: pur venendo da contesti e storie molto diverse, si sono integrati, hanno spesse volte ripreso e approfondito i loro studi, in molti casi hanno trovato conforto in una religione, riconoscono le chiusure anche da parte delle loro comunità. Chissà quante di queste e altre storie si possono ritrovare negli altri cinquantamila che risiedono a Firenze.

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