– di Giorgio Tamburlini-
Un progetto proposto nelle Scuole per l’infanzia di Trieste, e finalizzato alla conoscenza e rispetto reciproco tra bambini e bambine è stato oggetto di aspre contestazioni da parte di un periodico della Curia locale e da parte di alcuni genitori, perché prevede lo scambio di indumenti e un gioco di ruoli in cui le bambine fanno il mestieri dei maschietti e viceversa.
A Venezia, come a Nuoro o a Brescia e altrove, gruppi di genitori, a volte sostenuti da parti della Chiesa, hanno contestato i contenuti di programmi di lettura e relativi testi proposti vuoi dalle scuola per l’infanzia vuoi dalle biblioteche, in quanto ritenuti equivoci e generatori di confusione per l’identità di genere e dannosi per l’integrità morale dei bambini.
Tutto questo deve far riflettere. Non tanto per le polemiche sollevate da alcune parti politiche, che, proprio perché trasparenti nel oro intento strumentale, costruite spesso su uno stravolgimento della realtà dei fatti sulla base di superficiali ricostruzioni giornalistiche, non meritano particolare attenzione. Ma perché esiste il problema vero, sociale e culturale, costituito dalle preoccupazioni espresse da una parte – non sappiamo quanto piccola, ma non importa – dei genitori.
Queste preoccupazioni vanno affrontate, perché testimoniano uno stato di incertezza, confusione, paura che non porta alcun beneficio, né ai genitori che le esprimono, né ai loro bambini, né agli educatori che si trovano coinvolti nelle polemiche, né infine a tutti gli altri bambini che possono percepire un clima di tensione, e che comunque vengono privati – in molti casi questo è il risultato – di opportunità educative che erano state pensate per loro nel quadro di una esperienza socio-educativa di qualità. Perché di questo si tratta.
I concetti a cui si ispirano il progetto proposto a Trieste e le attività condotte nelle altre sedi sono da tempo patrimonio della comunità internazionale che si occupa di educazione, salute e sviluppo dei bambini nella prima infanzia e sono coerenti con raccomandazioni espresse dall’Organizzazione Mondiale della sanità, dall’UNICEF, dall’UNESCO riguardanti la parità di genere ed il superamento di stereotipi riguardanti, ad esempio, l’omosessualità.
Non vi sono dubbi sulla corrispondenza a standard educativi di qualità del progetto proposto presso le Scuole dell’infanzia di Trieste, che si colloca in una prospettiva di educazione alla comprensione delle diversità, all’uguaglianza, al rispetto. Né sulla sua legittimità, anche in considerazione che l’adesione al progetto è comunque volontaria, e segue un percorso di condivisione con i genitori.
Affrontare queste preoccupazioni e paure significa farsene carico, per evitare che nella non conoscenza, o conoscenza parziale o non comprensione degli intenti educativi, nascano e crescano fantasmi che poi inevitabilmente si ripercuotono sulla serenità delle famiglie.
Per facilitare un dialogo, assumere una prospettiva storica potrebbe ad esempio tornare utile. Sappiamo che nell’antichità classica le questioni di genere erano viste dIversamente che nell’età moderna. L’omosessualità, ad esempio, era più largamente riconosciuta e accettata. Tali temi sono stati poi confinati nella segretezza e nella vergogna per molti secoli.
Si è poi arrivati agli orrori del nazismo e, purtroppo, a quelli dell’islamismo radicale, degenerazioni diverse tra loro ma certamente unite da una omofobia e da una misoginia erette a regime ideologico e portate fino all’estremo della sopraffazione e dell’eliminazione fisica. La sola prossimità oggettiva con queste aberrazioni dovrebbe costituire motivo di riflessione per quanti ritengono che le questioni di genere debbano essere ancora un tabù, magari, e purtroppo, richiamandosi alla fede cristiana.
Potrebbe anche bastare il ridicolo di cui si coprono coloro che vedono ombre dove non ci sono. Negli Stati Uniti, in una zona detta “la cintura biblica” abitata da ultraortodossi cristiani, sono stati bruciati, non molti anni fa, i libri di Harry poter perché istigatori all’uso della magia. Tra i libri per bambini messi all’indice a Venzia e nel nuorese vi era “Piccolo Blu Piccolo Giallo” capolavoro degli anni ’50 di Leo Lionni, colpevole di far fondere i due pallini blu e giallo e dar così origine ad una entità verde.
O ancora basterebbe far riflettere sull’ovvio: che gli adulti vedono ambiguità e doppi sensi e malizia laddove bambini di due, tre o quattro anni non li vedono proprio.
Questo per restare al semplice. Si dovrebbe poi affrontare la questione, a lungo dibattuta, se le attività educative, e gli strumenti educativi quali i libri, debbano in qualche modo rispecchiare la realtà in cui i bambini comunque vivono o dare una immagine di questa edulcorata, rassicurante, quindi non vera. Una serie ideata da Altan intitolata “Piccolo Uovo” pensata per spiegare che al mondo le tipologie di famiglie sono tante e quindi per dar modo ai bambini anche di riconoscervi la propria o quella del vicino di casa o dell’amico del cuore, è stata anch’essa contestata.
Rispecchiare la realtà non vuol dire approvarla. Vuol dire magari riconoscerla come tale e spiegarla.
La funzione educativa, molto importante e dalle ricadute benefiche a distanza, di un nido di qualità sta proprio nella ricchezza delle esperienze proposte, nel collegamento che si riesce a fare tra queste esperienza e la vita di ogni giorno, e fra queste esperienze e le pratiche educative proprie di ogni famiglia. E‘ una funzione oggi più importante che mai. I pediatri sanno bene quanto sia paradossale che molti dei genitori di oggi coltivino ossessive preoccupazioni per l’ aspetto fisico esteriore o l’integrità fisica dei propri bambini e non vedano, o non riescano a vedere, quanto invece ci sia da porre attenzione al loro sviluppo cognitivo, affettivo e sociale.
E qualcuno si chiede – lo da Susanna Tamaro sul Corriere – se veramente i bambini abbiano bisogno di essere educati anche sugli aspetti riguardanti il rapporto tra i sessi, o piuttosto lasciati alla “scoperta” individuale e irripetibile di ognuno. La risposta che sembra venire dall’esperienza quotidiana con i genitori e i loro bambini è che si, perché comunque i bambini sono educati – piuttosto male – ogni giorno dalla tv e dalla ancor più pervasiva rete, e perché i loro genitori hanno disperato bisogno di un vero confronto, e di una guida, su questi temi e in generale su quelli dell’educazione.
Non c’è proprio da preoccuparsi – dovrebbe essere la conclusione di un tale percorso di dialogo e riflessione – che progetti come quello delle scuole dell’infanzia di Trieste causino confusione sui ruoli di genere e tanto meno conducano all’omosessualità.
Non vi è alcuna evidenza su questo mentre vi è evidenza sul fatto qualsiasi pratica educativa che porti al reciproco riconoscimento sia utile a combattere il virus, questo sì molto pericoloso, dell’annullamento dell’altro in base a una qualsiasi classificazione etnica, fisica, di genere, morale. Presupposto, questo si, della sopraffazione e della violenza.
La grande qualità messa in campo dai servizi per l’infanzia in molte parti d’Italia, va valorizzata. E l’accesso a questi servizi, purtroppo ancora appannaggio di una minoranza, va esteso. E’ banale, ma non ci si rende conto di quello che si ha fino a quando, malauguratamente, si rischia di perderlo.
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Giorgio Tamburlini è pediatra. Già direttore scientifico dell’IRCCS Burlo Garofolo di Trieste, è consulente di OMS e UNICEF per lo sviluppo infantile precoce.